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Testo della fiaba "La Reginotta"

C'era una volta un Re e una Regina che avevano una figliuola più bella della luna e del sole.

Un giorno, dopo il pranzo, il Re disse alla Regina:

"Maestà, guardate qui, tra i capelli. Sento qualche cosa che mi morde."

La Regina osservò, scostando i capelli colle dita, e trovò un pidocchio che era uno stupore. Stava per ischiacciarlo.

"No" disse il Re. "Proviamo d'allevarlo.

E misero il pidocchio in uno scatolino piccino piccino.

Gli davan da mangiare ogni giorno, e quello cresceva e ingrassava. Presto dovettero levarlo via di lì perché non ci capiva più, così grosso s'era fatto. Il Re, curioso di vedere fin dove sarebbe arrivato, lo trattava bene, e insieme alla Regina, andava tutti i giorni ad osservarlo in quella stanza del palazzo reale dove lo tenevano nascosto. Il pidocchio cresceva, cresceva. Furon costretti a levarlo via anche da quell'altro scatolino; era più grosso d'un pugno: si stentava a riconoscere che fosse un pidocchio. Insomma, cresci, cresci, diventò quanto una gallina e poteva appena muoversi, dalla gran ciccia che avea addosso.

Allora il Re lo ammazzò, lo scorticò e ne conciò la pelle. E fece un bando:

"Chi indovina che pelle di animale sia questa, avrà la Reginotta mia figliuola in isposa. Chi non sa indovinarlo, gli si taglia la testa."

La Reginotta era angustiata.

"Che marito le sarebbe toccato in sorte?"

E piangeva. Ma il Re voleva così e bisognava ubbidire!

Accorsero parecchie persone da tutti i punti del regno. Chi disse la pelle essere d'un animale, chi d'un altro; ed ebbero, senza misericordia, tagliate le teste.

Si provarono altri. L'idea di sposar la Reginotta era una gran tentazione, e pareva cosa facile il conoscere una pelle d'animale. Però, quand'erano lì, rimanevano. E il Re, senza misericordia, gli faceva tagliare le teste.

Finalmente, ecco un bel giovane.

"Peccato! Verrà fatta la festa anche a lui!"

Tutti ne aveano compassione vedendolo così giovane e così bello. Perfino il Re gli disse di pensarci due volte prima d'esporsi al cimento. Ma quegli, ostinato, entrava nella sala dov'era esposta la pelle.

"È pelle di pidocchio!"

"Bravo!" gli disse il Re. "Tu sposerai la Reginotta."

L'abbracciò, lo ritenne a pranzo e ordinò feste per tutto il regno.

La Reginotta era contenta. Lo sposo, giovane e bello, pareva anche d'alto lignaggio.

"Chi sei?" gli domandò il Re a tavola.

"Son carne battezzata e ho sangue reale nelle vene."

"E dov'è il tuo paese?"

"Il mio paese? È lontano, lontano. Per andarvi ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno."

La Reginotta sgomentossi.

Il Re e la Regina piangevano, pensando che la loro figliuola doveva vivere in quel paese lontano, lontano, che per andarvi ci si metteva un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno. Ma parola di Re non va indietro.

E fatte le nozze, la Reginotta e il bel giovane, con un gran seguito, si misero in viaggio. Centinaia di carri e di cavalli portavano la dote di lei, tutta in gioie e quattrini, e il corredo e i magnifici regali ricevuti dal Re e dalla Regina.

Cammina, cammina, cammina, non arrivavano mai!

"Dov'è il tuo paese?"

"Dietro quelle montagne."

Oltrepassaron le montagne e non s'arrivava ancora!

"Dov'è il tuo paese?"

"Più in là di quelle foreste."

Oltrepassaron le foreste e non s'arrivava ancora!

"Dov'è il tuo paese?"

"In fondo a quella pianura."

Traversarono la pianura e non si arrivava ancora!

La Reginotta intanto non si dava pace. Pensava al babbo e alla mamma che non avrebbe più riveduti.

Quel paese, così lontano lontano che non ci s'arrivava mai, le metteva un grande sgomento.

"Vuoi tu fare in fretta?" le disse lo sposo.

"Sì."

"Ti prenderò in collo e vedrai."

E la Reginotta lo lasciò fare. E non gli si è attaccata al collo colle braccia, che il bel giovane si trasforma in un Orco, alto, grosso, peloso, dagli occhi di brace, con certe zanne e certe granfie!...

"Ah, Vergine santa! Ah, mamma mia!"

La Reginotta avea chiuso gli occhi, si sentiva come portar via da un vento furioso.

L'Orco, nella sua corsa, faceva rintronar le vallate e le montagne:

"Auhiii! Auhiii!"

Pareva un terremoto dovunque passasse, pareva un tempesta.

Quando la Reginotta aperse gli occhi, capì che era già arrivata nel castello dell'Orco suo sposo.

Si sentì stringere il cuore.

Il castello era tutto circondato da mura così alte che si vedeva a mala pena un po' di cielo. Stanzoni freddi e bui; catenacci dappertutto; dappertutto ceffi di guardie che avrebbero messo spavento anche al più coraggioso del mondo.

"Che fare? Bisognava rassegnarsi!"

L'Orco le usava grandi riguardi. La mattina andava via per la caccia e tornava la sera carico di preda. La Reginotta riconosceva quell'alito a dieci miglia di distanza. La preda consisteva sempre in poveri cristiani, parte uccisi, parte vivi, che l'Orco poi divorava mezzo crudi, uno a colazione, uno a pranzo, uno a cena. Per la Reginotta invece portava pietanze squisite, pasticcini, torte, dolciumi di ogni sorta.

"Mangia! Hai paura?"

"No."

"Mangia dunque!"

"Non ho appetito."

"Mangia!!!..."

E bisognava mangiare, perché l'Orco s'offendeva del rifiuto e digrignava i denti.

"Bevi! Hai paura?"

"No."

"Bevi dunque!"

"Non ho sete."

"Bevi!!!..."

E bisognava bere, perché l'Orco s'offendeva del rifiuto e digrignava i denti.

Ma torniamo al Re e alla Regina.

Un giorno, dopo che il vincitore e la Reginotta eran partiti, arrivò un giovinetto: voleva, anche lui, tentar la prova della pelle.

"Troppo tardi, bel giovinetto! La prova fu vinta."

"E da chi, Sacra Maestà?"

"Da uno che abita un paese così lontano, che per andarci ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno."

"È un Orco! Ahimè, la Reginotta è alle mani d'un Orco!"

Figuriamoci il dolore del Re, della Regina e di tutta la corte a questa brutta notizia!

Il giovinetto andò via lamentandosi che la sua cattiva sorte lo avesse fatto arrivare troppo tardi. Era innamorato della Reginotta soltanto perché gli avevano detto che era più bella della luna e del sole; ed ora, pensando che lei si trovava alle mani di quella bestiaccia, provava un dolore di morte.

E camminava, senza saper dove andasse: i suoi occhi parevano due fontane.

Giunto in una pianura, stanco del cammino fatto, si sedette sopra un sasso, continuando a rammaricarsi.

Passava una vecchia con un fastello di legna sulle spalle.

"Che hai bel giovinetto?"

"Che volete che abbia, vecchiarella mia?"

E narrò il tristo caso della Reginotta e dell'Orco.

La vecchia non rispose nulla e riprese il cammino col suo fastello sulle spalle.

"Voi siete stanca, povera donna" disse il giovinetto. "Date a me cotesto fastello. Faremo strada insieme."

"Grazie, figliuolo!"

Il giovinetto si caricò il fastello e riprese la via insieme alla vecchia. Quel fastello era pesante.

"Nonna, la vostra abitazione è molto lontana di qui?"

"Un albero che balla e un uccellin che parla; appena gli avremo incontrati e saremo giunti a casa mia."

Il fastello aumentava di peso. Il giovinetto stentava a reggerlo, sudava, ansava. E intanto il sole era tramontato; faceva già scuro.

"Nonna, la vostra abitazione è molto lontana di qui?"

"Un albero che balla e un uccellin che parla; appena gli avremo incontrati e saremo giunti a casa mia."

Era notte; ci si vedeva poco. Ed ecco pel prato un albero che andava saltelloni e pareva ballasse, come se fosse stato una persona viva.

"Hai fatto buona guardia, ora basta" gli disse la vecchia.

E l'albero cessò di saltellare. Il giovinetto si era fermato, stupito.

"Avanti, figliuolo; c'è ancora qualche tratto."

Intanto il fastello aumentava di peso.

Il giovinetto non ne poteva più!

Stava per maledire l'ora e il punto che lui avea fatto quella carità a quella vecchia, quand'ecco uno sbattere di ali.

Era l'uccellino che parlava.

"Bene arrivata la mammina mia! Bene arrivato chi viene con lei!"

Il giovinetto, dalla paura, cominciò a tremare.

"Siamo giunti" disse la vecchia.

Ed entrarono in casa.

Quello si tolse di spalla il fastello, ch'era ridiventato leggiero, e lo posò accanto al focolare.

Allora la vecchia prendeva due ramicelli di legna, accendeva il fuoco, preparava la minestra; poi stendeva la tovaglia e metteva i piatti sulla tavola.

E quando tutto fu pronto:

"Cricrì, cricrì, cricrì!"

L'uccellino diventava una bella ragazza.

Si misero a mangiare.

Il giovinetto aveva ribrezzo di toccar le pietanze; temeva non fossero incantate.

"Dove vai, giovinetto, così sperso pel mondo? Se tu volessi fermarti qui, ti darei le mie ricchezze e questa bella figliuola in isposa."

"Ah, nonna mia, lasciatemi andare! Cerco la Reginotta del mio cuore e vo' trovarla, ad ogni costo. Se non la troverò monaco mi farò."

"Poverino! Ma tu non sai la via del paese dell'Orco. È lontano, lontano! Per andarvi ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno!"

£Che importa? La mia vita è della Reginotta; se morrò per lei, tanto meglio! Datemi un cantuccio per dormire, e domani svegliatemi all'alba; vo' mettermi in cammino.£

La vecchia lo condusse in una cameretta così bella da star bene anche in una reggia. Ma il giovinetto non poteva dormire. Pensava alla sua Reginotta e a quell'Orco, si svoltava di qua e di là fra le lenzuola e sospirava.

"Cricrì, cricrì, cricrì!"

Entrava in camera l'uccellino e subito diventava una bella ragazza, quella di poco prima.

"Perché non dormi, giovinetto? Perché sospiri?"

"Penso alla Reginotta del mio cuore e non posso chiuder occhio."

"Prendi me. Sono bella, sono ricca, sono di sangue reale. Dove vorresti trovare una fortuna migliore?"

"Ah, ragazza mia, lasciatemi andare! La mia sorte vuol così."

"Cricrì! Cricrì! Cricrì!"

La bella ragazza ritornava uccellino.

"Strappa una penna da questa coda, strappa due penne da queste ali. Nei momenti di gran pericolo, prendine una in mano e comanda. Sarai ubbidito."

Il giovinetto esitava:

"Poteva essere un tranello!"

Ma quello, di nuovo:

"Strappa una penna da questa coda, strappa due penne da queste ali. Nei momenti di gran pericolo, prendine una in mano e comanda. Sarai ubbidito."

"Allora!..." disse il giovinetto.

E, rassicurato, gli strappò quelle penne dalla coda e dalle ali e se le mise in serbo nelle tasche.

La notte era lunga e lui non poteva conciliar sonno. Pensava alla sua Reginotta e a quell'Orco, si rivoltava di qua e di là fra le lenzuola e sospirava.

Entrò in camera la vecchia.

"Perché non dormi, giovinetto? Perché sospiri?"

"Penso alla Reginotta del mio cuore e non posso chiuder occhio."

"Sposa la mia figliuola. È bella, è straricca, è di sangue reale."

"Ah, nonna, lasciatemi andare! La mia sorte vuol così."

"Tu sei un cuore fedele! Prendi questa nocciuola. Nei momenti di gran pericolo schiacciala fra i denti e comanda. Sarai ubbidito."

All'alba il giovinetto partì.

Cammina, cammina, giorno e notte, arrivava in mezzo a una foresta dove non c'era un segno di strada. Alberi di qua, alberi di là, macchie, siepi, spine. Non poteva più andare né avanti, né indietro.

"Ah!... Questo è il paese dell'Orco!" esclamava ad un tratto.

Provò una grande allegrezza. Prese in mano quella penna della coda dell'uccellin che parlava, e:

"Penna mia, penna mia, presto, aprimi la via!"

Il bosco s'aperse. Ed ecco una strada larga, diritta, che non finiva mai. Più lui s'inoltrava e più la strada s'allungava. Il giovinetto avea terminato il pane e l'acqua portati con sé; e lì non c'era acqua, non c'era frutta, nulla! Cominciava già a provare tutti gli strazii della fame. Intanto annottava; una notte senza stelle, buio come in gola; e si sentivano pel bosco gli urli dei lupi affamati...

"Questa volta è finita. I lupi mi divoreranno!"

Ma ecco laggiù, in fondo, in fondo, un lumicino che si vedeva e non si vedeva.

Il giovinetto si fece coraggio, raccolse le sue forze e tirò innanzi. Il lumicino restava sempre in fondo, che si vedeva e non si vedeva. Finalmente, come Dio volle, il poverino giunse dove quel lume luccicava dalla fessura d'un uscio, e picchiò.

Non rispose nessuno.

Lui tornava a picchiare.

"Aprite, anime cristiane! Ricoveratemi per questa notte!"

Ma non riceveva risposta.

"Era dunque arrivato in terra di pagani?"

E picchiava di nuovo, questa volta più forte.

"Chi sei?"

Quella vocina fioca fioca veniva di cima della casa.

"Sono un viandante smarrito. Fate la carità, in nome di Dio! Ricoveratemi per questa notte!"

"Zitto, non rifiatare, se ti è cara la vita! Aspetta che io ti cali giù le treccie dei miei capelli e afferrati ad esse."

Il giovinetto s'afferrava a quelle treccie venute giù, e si sentiva tirar in alto come una secchia. Un braccio l'aiutava ad entrare per la finestra, e lui si trovava faccia a faccia con una bella donzella, che lo guardava sorpresa.

"Come sei venuto fin qui? Ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno!"

Ah! Dunque si trovava nel castello dell'Orco! E quella donzella era la sua amata Reginotta!

Si mise a piangere dalla contentezza.

E quando disse chi era e come e perché venuto, piansero insieme.

Ma già stava per aggiornare. Il castello rintronava degli urli dell'Orco che si preparava ad andar a caccia. La Reginotta fece nascondere il giovinetto in un armadio e finse di ricamare.

L'Orco diè un calcio all'uscio. E appena entrato nella camera, cominciava a fiutare intorno intorno.

"Perché fiutate?"

"Mucci, mucci, sento odor di cristianucci!"

"Andate là! Avete fatto colazione or ora e n'avete piene le narici."

L'Orco s'acchetava e partiva per la sua caccia:

"Auhiii! Auhiii!"

"Fuggiamo" disse il giovinetto appena l'Orco fu partito.

"Ah, poveri a noi! Di qui non s'esce. Potessimo anche uscirne, non sapremmo ritrovare la strada in mezzo al bosco che per cento miglia circonda il castello."

Allora il giovinetto ricorreva all'altra penna dell'uccellin che parlava.

"Penna mia, penna mia, tutti e due portaci via!"

E di botto si sentirono come presi in collo, per aria, e, in men che non si dica, si ritrovarono ben oltre le cento miglia dal bosco.

Camminarono a piedi per tutta la giornata; e quando furono stanchi, veduto un pagliaio abbandonato, andarono a ricoverarsi lì e s'addormentarono saporitamente.

La mattina di buon'ora, ripresero il cammino.

Ma dopo un pezzetto, ecco da lontano un rumore sordo sordo, che s'avvicinava crescendo:

"Auhiii! Auhiii!"

Era l'Orco che li inseguiva!

Affrettarono il passo, anzi si misero a correre; ma l'Orco gli aveva già scoperti da lontano e gli veniva addosso più lesto del vento.

Il giovinetto prese in mano l'ultima penna dell'uccellin che parlava e:

"Penna, pennina, lei fontana ed io anguilla!"

L'Orco s'arrestò, stupito di non più vederli.

La fontana, limpida come il cristallo, gorgogliava allato della strada, e l'anguilla guizzava nell'acqua dimenando la coda.

L'Orco ebbe il sospetto che si fossero trasmutati l'una in fontana e l'altro in anguilla.

"Fontana, ti berrò! Anguilla, ti prenderò!"

Ma, bevi, bevi, quella fontana era sempre allo stesso punto, e quell'anguilla gli sguizzava sempre di mano.

L'Orco s'era già pieno lo stomaco d'acqua, ne avea fino alla gola. Non poteva più articolar la mano, tanto s'era stancato.

Si riposava un momento e poi daccapo:

"Fontana, ti berrò! Anguilla, ti prenderò!"

E tornava a bere, sforzandosi.

E cercava di afferrare quella maledetta anguilla che gli sguizzava sempre di mano. Finalmente buttossi per terra, morto dalla fatica, oppresso da quel peso dello stomaco, e subito s'addormentò.

La Reginotta e il suo compagno, visto che l'Orco dormiva, ripresero la strada.

Avevano camminato tutta la notte e metà del giorno appresso, quand'ecco nuovamente:

"Auhiii! Auhiii!"

L'Orco gli inseguiva, più furioso di prima.

"Ferma! Ferma!"

Pareva che tuonasse.

La povera Reginotta si perdette d'animo e svenne. L'Orco era a pochi passi; già arrotava i dentacci:

"Auhiii! Auhiii!"

Allora il giovinetto schiacciò la nocciuola.

"Nocciuola, nocciuola, trasmutaci in roccia e in farfalla che vola!"

E l'Orco si trovò davanti a una roccia scoscesa e brulla, che s'alzava a picco sulla campagna.

Una magnifica farfalla svolazzava qua e là colle sue ali dorate e andava, di tanto in tanto, a posarsi su quella.

L'Orco ebbe il sospetto che si fossero trasmutati l'uno in roccia e l'altra in farfalla.

"Roccia, t'atterrerò! Farfalla, t'acchiapperò!"

E si diè a scalzare la roccia, scavando la terra colle ugne; ma non riusciva a spostare nemmeno un sassolino.

Avea le mani tutte scorticate, le ugne tutte rotte; e scavava, scavava. Poi lasciava di scavare e dava la caccia alla farfalla. Ma quella volava in alto e non si lasciava acchiappare.

Morto dalla fatica, sdraiossi per terra, sotto la roccia, e si addormentò.

A un tratto la roccia gli si lasciava cader addosso tutta d'un pezzo.

"Auhiii! Auhiii!" urlava l'Orco, dando gli ultimi tratti.

Così la Reginotta e il suo compagno poterono rimettersi in viaggio tranquilli, e finalmente arrivarono ai confini del loro paese.

Quando il Re e la Regina ricevettero la notizia del loro prossimo arrivo, bandirono feste per tutto il regno.

Uscirono ad incontrarli fuori le porte della città con tutta la corte e un immenso popolo dietro, e ordinarono subito i preparativi per le nuove nozze della Reginotta col suo liberatore.

Ma lui disse:

"Debbo fare un viaggio. Se fra otto giorni non sarò ritornato, piangetemi per morto."

La Reginotta si disperava:

"Anderai dopo, sposo mio!"

"Anderete dopo, figliuolo mio!"

Ma la Reginotta, il Re, la Regina non riuscirono a persuaderlo.

Partì, e si trovò nella pianura deserta dove avea incontrato quella vecchia.

Aspettava un pochino, ed ecco la vecchia, anche questa volta col suo fastello di legna sulle spalle.

"Mi riconoscete, vecchiarella mia?"

"Si, figliuolo, ti riconosco. O che vieni a fare da queste parti?"

"Ve lo dirò dopo; datemi intanto il vostro fastello. Faremo strada insieme."

Questa volta il fastello era leggiero leggiero.

"Son venuto per ringraziarvi e per invitarvi alle mie nozze."

"Bravo figliuolo che tu sei!"

E, detto questo, la vecchia si trasfigurava. Era diventata una bellissima signora, risplendente più d'una stella, con una verga d'oro nel pugno.

Sorrise e sparì.

Allora lui comprese che quella era una Fata. Ritornò, tutt'allegro, al palazzo reale, e la stessa sera vennero celebrate le nozze.

Così furono marito e moglie:

e lui ebbe il frutto e noi le foglie.

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